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“La mano”, presente nel titolo della mostra è, in molte serie, protagonista; quasi ideale “aforisma fotografico”, che trova nelle parole di Rainer Maria Rilke “le mani hanno una storia, una cultura, una particolare bellezza” il fil rouge interpretativo del tema: una sineddoche in cui questa non sia solo rappresentativa del corpo materiale ma anche della condizione della mente.
Allora ‘mani’ contratte, strette e scavate segno di sofferenza e disperazione si contrappongono a ‘mani’ impegnate a prendere consapevolezza degli strumenti dell’alimentazione, un piatto, una mela, o che si levano in gesti liberatori quasi a rappresentare un segno di liberazione o di raggiunta vittoria.
Ma lo stesso varrebbe per i volti: straziati e dolenti o ridotti a maschere e fantasmi oppure gioiosi, carichi di speranza e quiete interiore.
L’approssimazione interpretativa di queste fotografie avviene così, volutamente, per difetto, mai per eccesso. I soggetti fotografati (persone e cose) dicono molto, le fotografie (Persone e Cose) forse intuiscono, di più lasciando comunque all’osservatore la facoltà di costruirsi una propria e personale consapevolezza di fronte al tema secondo l’idea per la quale il compito della fotografia sia solo quello di “mostrare senza dimostrare”. 
Una fotografia questa, come direbbe Giuseppe Pinna “che non è mezzo di verità, ma effetti di verità, verosimiglianze” giacché vale per questo genere di immagini quanto Karl Kraus sosteneva per l’aforisma letterario: “non coincide mai con la verità, o è una mezza verità o una verità e mezzo”.

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